venerdì 4 ottobre 2019

Cave e il suo "ragazzo fantasma"


Nessun singolo, nessuna anticipazione... se non una frase rivelatoria: "Le canzoni del primo album sono i bambini. Le canzoni del secondo album sono i genitori. Ghosteen è uno spirito migrante". D'altronde Cave non è certo artista che si piega facilmente alle regole del marketing, figuriamoci poi per un disco che prosegue l'elaborazione del lutto per la perdita di suo figlio (è lui il "ragazzo fantasma" del titolo), iniziata con il precedente "Skeleton Tree". Se "Skeleton Tree" trattava di quel dolore in maniera più laterale, “Ghosteen” affronta un dolore inimmaginabile in maniera più diretta, dal racconto neanche troppo metaforico basato sulla figura del ragazzo fantasma che torna, al quale cui dire addio attraverso la musica... e per poterlo contemporaneamente portare sempre con sé. Un'opera che riesce a far convivere due sentimenti opposti; lo strazio del dolore e il senso della pace... o quantomeno della sua ricerca, anche nei periodi più bui della vita. Un disco di ballate minimali, niente a che vedere con la furia dei suoi concerti: qui - com'è opportuno che sia - la logica è quella del "less is more". Un percorso di ricerca di pace interiore che si chiude con la lunga “Hollywood”, storia buddista di una madre che perde un figlio e rischia di impazzire, finché il Buddha non le fa capire che bisogna dire lasciar andare e dire addio: “Everybody's losing someone/It's a long way to find peace of mind, peace of mind/And I'm just waiting now, for my time to come/ And I'm just waiting now, for peace to come, for peace to come”.

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