mercoledì 18 aprile 2007

Dolci Visioni Digitali


Per i tipi della Raro Video esce il dvd David Bowie: Sound & Vision, Usa, 2002, 86', colore, voce narrante in italiano e inglese con sottotitoli in italiano. Regia di Rick Hull, musiche di Alan Ett.
Extras: Intervista ad Ernesto Assante - Intervista a Luca De Gennaro.
Il dvd contiene: Interviste con David Bowie, sua moglie Iman, e gli artisti Moby, Iggy Pop e Trent Reznor, l’apparizione televisiva alla BBC all’età di 17 anni, eccezionali interviste e foto di famiglia inedite.
Euro 17,90

Sound & Vision illustra la virtuale poetica del trasformismo di David Bowie, con un rigoroso rispetto della cronologia degli eventi, privati e artistici, dà linearità e continuità alla incessante rimessa in discussione di sé, permettendoci di considerarlo come l’autentico lievito che ha dato alla sostanza di artista di Bowie il senso di un vagabondismo culturale che egli ha saputo imporre sia come indefettibile marchio di fabbrica sia come formula magica grazie alla quale egli si è scavato una doverosa e confortevole nicchia nel Parnaso degli artisti totali.

Pochi artisti come David Bowie invitano a rifugiarsi nelle confortevoli secche degli stereotipi, fossero anche di segno opposto tra di loro. E se per risolvere questo imbarazzo la tentazione prima sarebbe quella di ricorrere alla definizione "enigmatico", è vero che a sua volta questa connotazione rischierebbe di far sospendere il giudizio possibile su di lui per mancanza di indizi utili, quando caso mai è la sovrabbondanza di indizi a rendere difficile un approccio soddisfacente alla sua poetica. Il Bowie dipinto dalla sua gloria è un genio elementare, senza dubbi né segreti, che, buon ultimo, fornisce l’ennesima conferma della persistenza di quel motivo conduttore più o meno conclamato della modernità che consiste nella celebrazione della volontà e dello sforzo di diventare sovrani, se non del mondo tout court, perlomeno di un mondo personale costruito a misura propria. Fedele a questo principio, l’artista Bowie è stato qualcuno che ha perseguito degli obiettivi raggiungendoli uno dopo l’altro sulla scorta di altrettanti accurati coups de theâtre che hanno assecondato le pulsioni di uno spirito "suddiviso" ma mai lacerato, perché alieno da ogni forma di pericoloso radicalismo linguistico e da ogni facile tentazione abiuratrice. Le spinte espressive che di volta in volta uscivano allo scoperto sono sempre state canalizzate lungo le linee di un disincanto eclettico che gli ha consentito di incarnare le diverse ipotesi di disordine e di trasgressione con una sorta di eleganza comportamentale che non è mai trascesa in insolente provocazione, e con una spregiudicatezza che ha sempre rifuggito da ogni aggressività. In questo modo Bowie ha saputo alimentare il suo protagonismo anche quando si autoconfinava nei lidi confortevoli di una discrezionalità che sembrava compiacersi di mortificare il lato emotivo della sua personalità, finendo per renderlo una sorta di Fregoli sepolcrale. Quello che è certo è che David Bowie non ha mai veramente appartenuto solo e in primo luogo al mondo del rock. Un ascolto non pregiudizialmente consensuale delle tante musiche che lo hanno reso celebre ci consente di affermare che raramente nella storia del rock si sono imposti con pari autorità un artista così "confondibile", interscambiabile, e una musica così esemplarmente anti-identitaria e anonima (l’anonimato sarà del resto l’opzione programmatica della breve esperienza di Bowie nel gruppo dei Tin Machine). La sua è una musica talmente restia a rivelarsi, a dichiararsi, che risulterebbe affascinante per il suo eccesso di pudore se troppo spesso il semplicismo indifferenziato che la domina e un inevitabile kitsch che la percorre non la facessero da padrone, tanto che, al di là dell’identificabilità di alcune facili melodie dei primi anni (da "Space Oddity" a "Life on Mars" a "Starman"), occorrerà arrivare al riff d’apertura del pezzo che dà il titolo all’album "The Rise and Fall of Ziggy Stardust" per avere infine un brandello di musica capace di scolpirsi nella nostra memoria. Quello che è sempre mancato alla musica di Bowie è l’intransigenza delle scelte e quell’impietosità che nasce solo da un approccio sacrale, alle quali egli ha sempre preferito la coesistenza e la convivenza tra opposti, o almeno la loro neutralizzazione, resa possibile dall’adesione, tanto massiccia da apparire sistematica, ad una medietà androgina che giocava ad occultarsi almeno quanto l’estremismo androgino dei vari personaggi che contestualmente Bowie incarnava chiedeva di essere sottolineato. Forse casualmente, ma questo limite si è comunque rivelato la carta vincente del suo rapporto con lo star system, perché ha permesso di far meglio risaltare la scelta radicalmente opposta attuata dall’uomo di spettacolo, sia che si trattasse di posare per una delle celebri copertine dei suoi album sia di ideare le sempre nuove e rutilanti scenografie delle sue esibizioni su un palcoscenico. Scorrendo le immagini di Sound & Vision si resta colpiti dal contrasto irriducibile, che diresti scientificamente studiato, tra la fantasmagoria istrionica dello spettacolo che Bowie appronta per gli occhi e la compostezza dei suoni che l’accompagnano. [..] Roberto Di Vanni

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