lunedì 30 marzo 2020

GIGATON di energia rock!


Forse sarà la presenza del nuovo produttore Josh Evans... ma il nuovo Pearl Jam mi è sembrato (l'ho ascoltato solo una volta e butto giù qualche commento "a caldo") un buon disco. L'attesa è stata lunga, oltre sei anni da “Ligthing bolt” ma la pazienza - la nostra - ha pagato: si tratta del disco più compatto dai tempi di “Avocado” del 2006. Questo nuovo disco si distingue sopratutto per il suono... e in questo ambito sicuramente Evans ci ha messo del suo (nota a margine: quando i Pearl Jam pubblicarono il best seller Ten Josh aveva 13 anni!). "Gigaton" riesce nell'ardua impresa di testare nuove soluzioni pur rimanendo coerente con l'identità della band. Tanti scintillanti chitarroni rock, qualche soluzione inaspettata ma opportuna, qualche ballatona e pure brani acustici. I testi sono indissolubilmente allineati al nostro presente.

Who Ever Sad - Partenza eccellenta, i PJ qui potrebbero essere definiti una sorta di Who del 2020. 

Superblood Wolfmoon - L'intro di batteria, il riff secco di chitarra... i PJ dei primi tempi. Funzionerà ancora meglio dal vivo, c'è da scommeterci!

Dance of the Clairvoyants - La prima volta che l'avevo sentita, sarò sincerò, mi aveva fatto storcere la bocca. Era il singolo che anticipava l'album e temevo che la band di Vedder prendesse la china degli U2 più recenti. Riascoltata con maggiore attenzione, alla luce anche del testo che suona quasi "profetico" ("We're stuck in our boxes..."), direi che funziona.

Quick Escape - Inizia in modo suggestivo, ricordando "Kashmir" degli Zeppelin (anche per la ritmica possente) e con un omaggio ai Queen nel testo. Bello il coro nel ritornello. Anche qui gli U2 elettronici aleggiano nei suoni.

Alright - Si tira il fiato con una ballata d'atmosfera, sospesa e sognante. Uno dei pregi della voce di Vedder è la capacità di rendere bene la rabbia ma risultare estremamente convincente anche quando canta altri aspetti, come l'introspezione: “It’s alright, to be alone, to listen for a heartbeat, it’s your own...”.

Seven O’clock - Il pezzo più lungo di tutto il disco, testo di Vedder e musica di tutti gli altri, nel ritornello ricorda la floydiana “Confortably numb” (spesso cantata da Vedder dal vivo). Le tastiere volano e fanno volare. Una delle mie preferite. Never Destination - Firmata dal solo Vedder, un rock quadrato e diretto, nella tradizione PJ, con un bridge e un finale degni di nota. Non esaltante ma piacevole.

Take The Long Way - Qui siamo su territori punk, canzone firmata da Matt Cameron (il batterista) che evoca i Soundgarden di “Superunknown”. Non rimarrà nella loro storia.

Buckle Up - Firmata da Stone Gossard, con un arpeggio acustico in controtempo, brano assolutamente originale per i loro standard.

Comes Then Goes - Vedder chitarra acustica (suonata un po' alla Townshend...) e voce, niente ritmica, parla di come la vita nel suo scorrere alteri le relazioni. Citazione degli amatissimi Who: “Can I try one last time / Could all use a saviour for human behaviour sometimes / And the kids all right”. Molto bella, per me uno dei momenti più intensi.

Retrograde - Ballata acustica stile REM, parte la chitarra, poi arrivano gli altri a sostenere la voce di Vedder. Ritornello molto bello sul genere “Sirens”, che invoglia a cantare. La coda è emozionalmente in crescendo, grande pezzo!

River Cross - Logica conclusione con un brano intenso, pacato e pieno di speranza, basato sull’organo di Eddie Vedder e sui tom di Matt Cameron, che firma in solitudine il pezzo, suonata anche nei suoi concerti solisti. "Share the light, won’t hold us now”... condividiamo la luce. La sua... "Biko"!

Bravi... 7+!

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